LA CORTE DI CASSAZIONE 
 
    Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza  sul  ricorso   proposto
nell'interesse di D.P.E., nato a Siracusa l'8 luglio 19.., avverso il
decreto della Corte di appello di Catania, in data 9 giugno 2008; 
    Visti gli atti, il decreto denunziato e il ricorso; 
    Sentita  in  camera  di  consiglio  la   relazione   svolta   dal
consigliere dott. Franco Fiandanese; 
    Letta la richiesta del Procuratore  Generale  presso  la  Suprema
Corte di rigetto del ricorso. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    La Corte di appello di Catania, con  decreto  in  data  9  giugno
2008, confermava il decreto emesso dal Tribunale  di  Siracusa  il  7
febbraio 2008, con il quale D.P.E., in applicazione  della  legge  31
maggio 1965, n. 575, veniva sottoposto  alla  misura  di  prevenzione
della sorveglianza speciale e dell'obbligo  di  soggiorno  presso  il
comune di residenza per la durata di un anno e venivano confiscati un
immobile e un'autovettura intestati alla moglie dello stesso D.P. 
    Propone  ricorso  per  cassazione   l'avv.   Puccio   Forestiere,
deducendo violazione di legge per difetto assoluto di motivazione  in
merito alle specifiche doglianze difensive formulate  con  l'atto  di
appello. 
    Propone ricorso per cassazione anche altro difensore di D.P. avv.
Alfredo Gaito, il quale, con riferimento alla misura  di  prevenzione
personale, afferma la mancanza dei  presupposti  della  pericolosita'
attuale e della appartenenza di D.P.  ad  associazione  mafiosa;  con
riferimento alla  misura  di  prevenzione  patrimoniale,  lamenta  la
omessa valutazione delle specifiche deduzioni  difensive.  Lo  stesso
difensore eccepisce,  inoltre,  ai  sensi  dell'art.  609,  comma  2,
c.p.p., la violazione dell'art. 6 della C.E.D.U., rivolgendo  formale
istanza per la trattazione del ricorso in udienza pubblica. 
    Il difensore ricorrente osserva che la Corte Europea dei  Diritti
dell'Uomo, con decisione 13  novembre  2007,  Bocellari  e  Rizza  c.
Italia, ha condannato l'Italia per  violazione  del  diritto  ad  una
pubblica udienza nel caso di procedimento camerale (nella specie:  di
prevenzione) nel corso del quale i ricorrenti avevano  richiesto  che
la trattazione avvenisse in pubblica udienza;  osserva,  ancora,  che
l'assenza di pubblicita' non deve essere confusa  con  l'effettivita'
del   contraddittorio,   poiche'   la   ratio   della    disposizione
convenzionale che prevede  la  pubblicita'  dell'udienza  e'  quella,
riconosciuta dalla Corte Europea dei  Diritti  dell'Uomo,  di  tutela
contro la giustizia segreta che sfugge al  controllo  pubblico  e  di
conservazione della fiducia dei cittadini nei giudici, cosi'  che  il
diritto alla pubblicita' del procedimento e'  assolutamente  distinto
da quello concernente l'accesso agli atti di  causa.  Ad  avviso  del
difensore ricorrente, l'adeguamento a norma impone anche alla Suprema
Corte di cassazione di dare immediata applicazione alla  sentenza  in
discorso, poiche' l'udienza a porte chiuse per tipologie  di  materia
individuate aprioristicamente, al di fuori e senza  tener  conto  dei
parametri del giusto processo europeo, non puo'  piu'  essere  intesa
quale  modulo  standardizzato  immodificabile.  Per  il  giudizio  di
legittimita' si impone il meccanismo dell'udienza a porte aperte,  in
applicazione estensiva di quanto stabilito dall'art.  441,  comma  3,
c.p.p., per  la  trasformazione  pubblica  del  giudizio  abbreviato,
valendo la doglianza  esposta  nel  ricorso  quale  istanza  espressa
dell'interessato, con conseguenze invalidanti  per  le  decisioni  di
merito, ambedue scaturite all'esito di procedure da ritenere illegali
ora per allora. 
    Questa Sezione, con ordinanza in data 14  maggio  2009,  rilevato
che le questioni di diritto sottoposte  al  suo  esame  avevano  dato
luogo  o  potevano  dar  luogo  ad  un  contrasto  giurisprudenziale,
rimetteva il ricorso alle Sezioni Unite, ma il  Presidente  Aggiunto,
con  proprio  provvedimento  del  22  giugno  2009,   restituiva   il
procedimento,  ritenendo  che  questa  Sezione  avesse   omesso   «di
soffermarsi adeguatamente sulla specialita' che connota  il  giudizio
di cassazione» e che non  dovesse  trascurarsi  che  «in  materia  di
prevenzione, tra l'altro, il ricorso e' ammesso solo  per  violazione
di legge (art. 3, comma 11, legge n. 1423/1956)». 
    Fissata una nuova udienza in Camera di consiglio,  ha  depositato
memoria il difensore del ricorrente, il quale  ha  osservato  che  la
capacita' conformatoria delle disposizioni nazionali consentirebbe la
possibilita' di trovare una soluzione sul piano ermeneutico volta  ad
armonizzare il diritto interno  con  l'ordinamento  scaturente  dalla
CEDU, evitando il sorgere di  un'antinomia  normativa  ed  escludendo
quindi la necessita' di sollevare questione di  legittimita'  davanti
alla Corte  costituzionale.  Il  ricorrente,  pertanto,  insiste  per
l'accoglimento delle doglianze  con  annullamento  senza  rinvio  del
provvedimento impugnato. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    Con la sentenza del  13  novembre  2007,  Bocellari  e  Rizza  c.
Italia, n. 399/2002, la Corte Europea dei Diritti  dell'Uomo  ricorda
che la pubblicita' della procedura degli  organi  giudiziari  di  cui
all'articolo 6 §1 della Convenzione («Ogni persona ha diritto  a  che
la sua causa sia  esaminata  equamente,  pubblicamente  ed  entro  un
termine  ragionevole  da  un  tribunale  indipendente  e  imparziale,
costituito per legge») tutela le persone soggette alla  giurisdizione
contro una giustizia segreta che sfugge al controllo del  pubblico  e
costituisce anche uno dei mezzi per preservare la fiducia nelle corti
e  nei  tribunali.   Con   la   trasparenza   che   essa   conferisce
all'amministrazione della giustizia,  aiuta  a  realizzare  lo  scopo
dell'articolo 6 § 1: l'equo processo, la cui garanzia  e'  annoverata
fra principi di ogni societa' democratica ai sensi della Convenzione. 
    La stessa Corte aggiunge che l'articolo 6 § 1citato tuttavia  non
pone ostacoli al fatto che le autorita' giudiziarie  decidano,  viste
le particolarita' della causa sottoposta al loro esame, di derogare a
questo principio, ma la situazione e' diversa quando una procedura si
svolge a porte chiuse in virtu' di una  norma  generale  e  assoluta,
senza che la persona soggetta a giurisdizione abbia  la  possibilita'
di sollecitare una pubblica udienza; una procedura che si  svolge  in
questo modo  non  puo'  in  linea  di  principio  essere  considerata
conforme all'articolo 6 § 1 della Convenzione: la persona soggetta  a
giurisdizione deve almeno  avere  la  possibilita'  di  domandare  la
tenuta di dibattimenti pubblici. Nella fattispecie, lo svolgimento in
Camera di consiglio delle procedure che riguardano l'applicazione  di
misure di prevenzione e' espressamente previsto dall'articolo 4 della
legge n. 1423 del 1956 e  le  parti  non  hanno  la  possibilita'  di
domandare ed ottenere una pubblica udienza. 
    La Corte, inoltre, rispondendo  al  Governo  italiano  che  aveva
dedotto la natura altamente tecnica della procedura  di  applicazione
delle misure di  prevenzione  patrimoniale  a  giustificazione  della
mancanza di pubblicita', sottolinea che «non bisogna perdere di vista
la posta in gioco delle procedure di prevenzione e  gli  effetti  che
sono  suscettibili  di  produrre  sulla  situazione  personale  delle
persone coinvolte». Questo tipo di procedura riguarda  l'applicazione
della  confisca  di  beni  e  capitali,  cosa  che   direttamente   e
sostanzialmente coinvolge la situazione  patrimoniale  della  persona
soggetta a giurisdizione. Davanti a tale posta in gioco, non si  puo'
affermare che il  controllo  del  pubblico  non  sia  una  condizione
necessaria alla garanzia del rispetto dei  diritti  dell'interessato.
In definitiva, la Corte giudica essenziale che le persone soggette  a
giurisdizione coinvolte in  un  procedimento  di  applicazione  delle
misure di prevenzione si vedano almeno  offrire  la  possibilita'  di
sollecitare una pubblica udienza davanti alle  sezioni  specializzate
dei tribunali e delle corti d'appello. 
    Questa interpretazione  giurisprudenziale  puo'  ritenersi  ormai
consolidata a seguito dell'intervento della Grande Camera della Corte
di Strasburgo con decisione dell'8 luglio  2008,  Perre  e  altri  c.
Italia, n. 1905/2005, che ha confermato il  contenuto  interpretativo
della precedente citata pronuncia, sempre con  riferimento  specifico
al procedimento di applicazione delle misure di prevenzione. 
    La questione sollevata dal ricorrente e' gia' venuta all'esame di
questa Suprema Corte, che ha ritenuto che l'applicazione della regola
secondo la quale i  ricorsi  per  cassazione  in  tale  materia  sono
soggetti alla trattazione con la procedura camerale  non  partecipata
(art. 611 c.p.p.), non trova ostacolo  nella  pronuncia  della  Corte
europea dei diritti dell'uomo 13 novembre 2007 in causa  Bocellari  e
Rizza c/ Italia, giacche'  questa  non  opera  alcun  riferimento  al
giudizio che si svolge davanti alla Corte di cassazione (Sez.  I,  26
febbraio 2008, n. 11279, Magnisi, rv. 239046;  Sez.  I,  13  febbraio
2008, n. 8990, Ambrogio, rv. 239515 e Sez. I, 26  febbraio  2008,  n.
14010, Cucurachi, rv. 240137; Sez. II, 18 novembre  2008,  n.  46751,
Cacucci ed altri, n.m.; Sez. I, 4 febbraio 2009, n.  13569,  Falsone,
rv. 243552; Sez. VI, 22 gennaio 2009, n. 17229, Scimeni, rv. 243665). 
    Il Collegio non condivide  il  contenuto  motivazionale  di  tali
pronunce e il conseguente risultato interpretativo. 
    Alcune di esse  affermano  che  «l'incompatibilita'  della  norma
interna con quella della Convenzione non potrebbe mai trovare rimedio
nella semplice non applicazione della  norma  interna  da  parte  del
giudice nazionale» (Sez. I, n. 11279 del 2008, cit.) o nella «diretta
applicazione» delle disposizioni della Convenzione stessa (Sez. I, n.
13569 del 2009 cit.); altre, aggiungono che  «un'eventuale  questione
di  legittimita'  costituzionale  risulta,  tuttavia,  manifestamente
infondata dal momento che la struttura e le cadenze del  procedimento
di prevenzione non  appaiono  contrastanti  con  i  precetti  sanciti
dall'art. 24 Cost., comma 2, e art. 111  Cost.,  sull'equo  processo,
assicurando, comunque, la partecipazione personale all'udienza  e  la
difesa tecnica del proposto» (Sez. I, n. 14010 del 2008, cit.) 
    Tali affermazioni non sono condivisibili. 
    Le sentenze della Corte costituzionale n.  348  e  349  del  2007
hanno chiarito che le norme della  Convenzione  europea  dei  diritti
dell'uomo, in  applicazione  dell'art.  117,  comma  1,  Cost.,  come
sostituito dall'art. 3, comma  1,  legge  costituzionale  18  ottobre
2001, n. 3,  costituiscono  «norme  interposte»  imprescindibili  per
garantire l'effettivita' della citata disposizione  costituzionale  e
rendere cogenti gli  obblighi  che  l'Italia  ha  assunto  a  livello
internazionale. Con la conseguenza che al giudice spetta interpretare
la norma interna in modo conforme alla  disposizione  internazionale,
entro i limiti nei quali cio' sia permesso  dai  testi  delle  norme;
mentre qualora  cio'  non  sia  possibile,  ovvero  si  dubiti  della
compatibilita' della norma interna con la disposizione  convenzionale
interposta, il giudice deve investire la Corte  costituzionale  della
relativa  questione  di  legittimita'  costituzionale   rispetto   al
parametro dell'art. 117, primo comma, Cost. 
    Pertanto, premesso che il contenuto  interpretativo  della  norma
della C.E.D.U. e' quello  ad  essa  attribuito  dalla  giurisprudenza
della Corte  europea  dei  diritti  dell'uomo,  che  sola  garantisce
l'applicazione   del   livello   uniforme   di   tutela   all'interno
dell'insieme  dei  Paesi  membri  (ai  sensi   dell'art.   32   della
Convenzione la competenza della Corte di  Strasburgo  «si  estende  a
tutte le questioni  concernenti  l'interpretazione  e  l'applicazione
della Convenzione e dei suoi protocolli che siano sottoposte ad  essa
alle condizioni previste» dalla medesima), non  e'  sufficiente  dire
che  la  norma  interna  che  appaia  incompatibile  con   la   norma
convenzionale non puo' essere  disapplicata  da  parte  del  giudice;
neppure e' sufficiente affermare che essa, sebbene incompatibile  con
la norma convenzionale, e' pur tuttavia  conforme  alla  Costituzione
italiana. Infatti, il giudice deve innanzitutto  interrogarsi  se  la
norma interna sia suscettibile  di  un'interpretazione  «adeguatrice»
alla norma convenzionale e, nel caso in cui cio' non  sia  possibile,
deve investire la Corte costituzionale della  relativa  questione  di
legittimita' costituzionale  rispetto  al  parametro  dell'art.  117,
comma 1, Cost. Alla Corte costituzionale spetta, poi, di accertare se
sussista il denunciato contrasto e verificare la compatibilita' della
norma C.E.D.U. con le pertinenti norme della  Costituzione  sotto  il
profilo che essa  sia  conforme  alla  Costituzione,  nel  senso  che
garantisca una tutela dei diritti fondamentali almeno equivalente  al
livello garantito dalla. Costituzione italiana. 
    Pertanto, le  considerazioni  svolte  dalle  citate  sentenze  in
merito al divieto per il giudice di  disapplicare  la  norma  interna
incompatibile  con  quella  convenzionale  ovvero  in   merito   alla
compatibilita' della norma interna, nel caso di specie, con gli artt.
24, comma 2, e 111 Cost. non esauriscono la problematica in esame. 
    Ancora di recente la Corte costituzionale  ha  ribadito  che  «la
diretta applicazione delle disposizioni della CEDU, in  quanto  tali,
e' da escludere» (sent. n. 306 del 2008); che «le  norme  della  CEDU
devono essere considerate come interposte e che la loro peculiarita',
nell'ambito  di  siffatta  categoria,   consiste   nella   soggezione
all'interpretazione della Corte di Strasburgo, alla quale  gli  Stati
contraenti, salvo l'eventuale scrutinio  di  costituzionalita',  sono
vincolati ad uniformarsi» (sent. 39 del 2008); che «al giudice comune
spetta  interpretare  la  norma  interna  in   modo   conforme   alla
disposizione  internazionale,  entro  i  limiti  nei  quali  cio'  e'
permesso dai testi delle norme e  qualora  cio'  non  sia  possibile,
ovvero  dubiti  della  compatibilita'  della  norma  interna  con  la
disposizione convenzionale "interposta", egli deve  investire  questa
Corte  delle  relative  questioni  di   legittimita'   costituzionale
rispetto al parametro dell'art. 117, primo comma Cost. (...) Solo ove
l'adeguamento  interpretativo,  che   appaia   necessitato,   risulti
impossibile o l'eventuale diritto vivente che  si  formi  in  materia
faccia sorgere dubbi sulla sua  legittimita'  costituzionale,  questa
Corte potra' essere chiamata ad affrontare il problema della asserita
incostituzionalita' della disposizione di legge» (sent.  n.  239  del
2009). 
    In verita', altre pronunce di questa Corte  hanno  sostenuto  che
«benche' la legge n. 1423 del 1956, art. 4 preveda la trattazione  in
camera  di  consiglio,  nulla  vieta   che   il   giudice,   seguendo
un'interpretazione     costituzionalmente     orientata,     applichi
analogicamente la disposizione di cui all'art. 441 c.p.p.,  la  quale
prevede che il giudizio abbreviato si svolga in camera di  consiglio,
ma che se tutti gli  imputati  ne  fanno  richiesta  abbia  luogo  in
pubblica udienza, cosi' facendo venire meno i  profili  di  contrasto
con la  Convenzione  Europea  dei  diritti  dell'uomo»,  aggiungendo,
pero', che la pubblicita' dell'udienza in Corte di cassazione non  e'
richiesta dalla Convenzione Europea dei diritti dell'uomo, stante  il
carattere eminentemente tecnico e di sola legittimita'  del  giudizio
di cassazione (Sez. n. 46751 del 2008, cit.). 
    Tale interpretazione  adeguatrice  incontra,  pero',  il  rilievo
critico  della  evidenza  testuale  del  disposto  normativo  che  fa
specifico riferimento ad un procedimento in Camera di consiglio (art.
4, commi 6 e 11, legge n. 1423 del 1956, che,  inoltre,  richiama  le
norme sul procedimento di sorveglianza  e  di  esecuzione);  anche  a
prescindere dal richiamo contenuto nelle citate pronunce della  Corte
di Strasburgo alla affermazione  del  Governo  italiano,  intervenuto
davanti alla Corte stessa, che lo svolgimento in camera di  consiglio
non dipendeva da una  decisione  discrezionale  del  giudice  e  che,
pertanto, un'eventuale istanza di pubblico  dibattimento  proveniente
dalle parti sarebbe stata probabilmente respinta. 
    Anche la affermazione di principio, che sembra comune a tutte  la
citate sentenze di questa Suprema Corte, secondo la quale  la  citata
decisione della Corte di Strasburgo riguarda il giudizio  davanti  ai
giudici di merito e non opera alcun riferimento al  giudizio  che  si
svolge  davanti  alla  Corte  di  cassazione  deve  essere   valutata
all'interno del complesso delle regole che disciplinano  il  giudizio
di cassazione. 
    Occorre osservare, in primo luogo, che  e'  bensi'  vero  che  la
C.E.D.U. ha affermato che il diritto ad un'udienza  pubblica  dipende
anche dalle questioni da dirimere e che, in particolare, tale udienza
puo' essere esclusa nel caso in cui debbano trattarsi  esclusivamente
questioni di diritto (cfr. C.E.D.U., Ekbatani c.  Svezia,  26  maggio
1988, n. 10563/1983, nonche' Helmer c. Svezia, 29  ottobre  1991,  n.
11826/1985; e, in generale, sulla natura delle questioni da decidere,
Miller c. Svezia, 8 febbraio  2005,  n.  55853/2000),  ma  la  stessa
C.E.D.U. ha precisato che l'assenza dell'udienza pubblica, nei  gradi
successivi al primo,  puo'  essere  giustificata  dalla  peculiarita'
della procedura in questione, purche' l'udienza pubblica abbia  avuto
luogo in primo grado (Helmer c. Svezia  cit.  §  36;  nonche'  Grande
Camera, Martinie c. Francia, 12 aprile 2006, n.  58675/2000,  §  43).
Quanto alla  circostanza  che  l'interessato  non  abbia  chiesto  la
pubblica udienza nel giudizio di merito, e'  sufficiente  il  rilievo
che la questione di legittimita' costituzionale puo' e/o deve  essere
rilevata d'ufficio, come si chiarira'  piu'  avanti  con  riferimento
alla rilevanza della questione in questa sede sollevata. 
    Occorre, inoltre, osservare che il  suddetto  principio  espresso
dalle  citate  sentenze  di  questa  Suprema  Corte  potrebbe  essere
condiviso se il procedimento  camerale  fosse  l'unica  tipologia  di
procedimento  previsto  davanti  alla  Corte  di   Cassazione.   Deve
rilevarsi,  invece,  che  il  procedimento  davanti  alla  Corte   di
cassazione puo' svolgersi in pubblica  udienza  e  se  si  svolge  in
Camera di consiglio puo' assumere la forma  c.d.  non  partecipata  o
quella ex art. 127 c.p.p.; ma soprattutto, deve considerarsi  che  la
regola generale, salvo eccezioni, e'  quella  secondo  la  quale  «la
Corte procede in Camera di consiglio quando  deve  decidere  su  ogni
ricorso contro provvedimenti non emessi nel dibattimento»  (art.  611
c.p.p.), anzi, talvolta, la Corte procede in pubblica  udienza  anche
quando la sentenza  impugnata  e'  stata  pronunciata  in  Camera  di
consiglio (art. 611 con riferimento all'art. 442  c.p.p.),  in  altri
termini, la modalita' procedimentale per  la  decisione  dei  ricorsi
segue quella prevista per il giudizio di merito e talvolta  l'udienza
pubblica e' prevista anche nel caso in cui la pubblicita' non vi  sia
stata nei precedenti gradi di giudizio. 
    E' irrilevante, poi, l'osservazione che il motivo di ricorso  per
cassazione  nei  procedimenti  di  prevenzione   e'   limitato   alla
violazione di legge, poiche', quale che siano i  vizi  deducibili  e'
pacifico che il giudizio in Cassazione e'  comunque  un  giudizio  di
legittimita' (tra le tante:  Sez.  VI,  3  ottobre  2006,  n.  36546,
Bruzzese, rv. 235510; sez. II, 11 gennaio 2007, n. 7380, Messina, rv.
235716; sez. IV, 10 luglio 2007, n.  35683,  Servidei,  rv.  237652);
d'altro canto, il vizio di violazione di legge e'  ravvisabile  anche
in caso di mancanza di  motivazione,  qualificabile  come  violazione
dell'obbligo di provvedere con decreto motivato imposto al giudice di
appello dal decimo comma dell'art. 4 della legge n. 1423 del 1956,  e
alla mancanza di motivazione e', peraltro,  equiparata  l'ipotesi  in
cui la motivazione risulti del tutto priva dei  requisiti  minimi  di
coerenza, di completezza  e  di  logicita',  al  punto  da  risultare
meramente  apparente,  o  sia  assolutamente   inidonea   a   rendere
comprensibile l'itinerario logico seguito dal  giudice  (Sez.  I,  21
gennaio 1999, n. 544, Barbangelo, rv. 212946; Sez. V, 16 marzo  2000,
n. 1480, Capizzi, rv. 217361; sez. I, 14  febbraio  2001,  n.  18893,
Laurito,  rv.  218861),  secondo   un   principio   affermato   dalla
giurisprudenza di legittimita' in tutti i casi nei quali  il  ricorso
per cassazione e' limitato  al  vizio  di  violazione  di  legge.  Ma
soprattutto deve rilevarsi che nel sistema  del  codice  di  rito  la
limitazione della ricorribilita'  in  cassazione  al  solo  vizio  di
violazione di legge non necessariamente comporta  la  trattazione  in
Camera di consiglio, come e' dimostrato dalla previsione  di  ricorso
immediato per cassazione  (art.  569  c.p.p.),  con  quale  non  sono
deducibili  i  vizi  attinenti  la  motivazione   del   provvedimento
impugnato (comma 3 articolo citato), tuttavia il rito  in  cassazione
segue quello del procedimento  di  merito  e,  quindi,  ben  potrebbe
essere la pubblica udienza. 
    Neppure deve  essere  trascurato  che  il  procedimento  camerale
applicabile nel caso di misure di  prevenzione  e'  quello  c.d.  non
partecipato e non, invece, quello ex art. 127  c.p.p.  Sul  punto  la
Corte  di  cassazione  ha  anche  affermato  che  «e'  manifestamente
infondata,  in  riferimento  all'art.  3  Cost.,  la   questione   di
legittimita' costituzionale dell'art. 611 c.p.p., nella parte in  cui
non prevede, per la trattazione dei ricorsi in materia di  misure  di
prevenzione, l'applicabilita' del rito previsto dall'art. 127  stesso
codice, pur vigente per i ricorsi  in  materia  di  misure  cautelari
personali,  in  quanto  queste  ultime   presentano   caratteristiche
afflittive  superiori   alle   misure   personali   di   prevenzione,
comprendendo la  piu'  grave  limitazione  della  liberta'  personale
costituita  dalla  custodia  in  carcere  e  quella   degli   arresti
domiciliari, limitativa della liberta'  personale  dell'individuo  in
misura assai piu' grave di qualsiasi misura di  prevenzione;  sicche'
il  trattamento  processuale  differenziato  si  giustifica  per   la
difformita' delle situazioni esaminate» (Sez. I, 20 novembre 1998 - 8
febbraio 1999, n. 5760, Iorio,  rv.  212441).  Tali  affermazioni  di
principio dovrebbero essere attentamente esaminate  anche  alla  luce
della chiara indicazione contenuta nelle citate sentenze della  Corte
Europea dei diritti dell'uomo, secondo la quale «non bisogna  perdere
di vista la posta in gioco  delle  procedure  di  prevenzione  e  gli
effetti che sono suscettibili di produrre sulla situazione  personale
delle  persone  coinvolte».  Sulla  "posta  in  gioco"  si   sofferma
ampiamente la sentenza della Grande Camera Jussila c.  Finlandia,  23
novembre 2006, n. 73053/2001, la quale osserva che «gli organi  della
Convenzione hanno  gettato  le  basi  per  un'estensione  progressiva
dell'applicazione del profilo penale dell'art. 6 ad  ambiti  che  non
rientrano  formalmente  nelle  categorie  tradizionali  del   diritto
penale» e giunge alla conclusione dell'applicabilita'  del  principio
della pubblicita' dell'udienza in contenzioso  relativo  a  penalita'
fiscali. 
    Sulla base  di  tali  premesse  questa  Corte  ritiene  di  dover
sollevare questione di legittimita' costituzionale dell'art. 4, commi
6, 10 e 11, della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 e  dell'art.  2-ter
della  legge  31  maggio  1965,  n.  575  (in  quanto   richiama   il
procedimento in Camera di  consiglio  come  modalita'  procedimentale
esclusiva per l'applicazione delle misure personali e patrimoniali di
prevenzione), per violazione dell'art. 117, comma primo, Cost., nella
parte  in  cui  non  consentono  che,  a  richiesta  di   parte,   il
procedimento in  materia  di  misure  di  prevenzione  si  svolga  in
pubblica udienza. 
    La richiesta di parte e', infatti,  la  garanzia  minima  pretesa
dalla Corte di Strasburgo («la persona soggetta a giurisdizione  deve
almeno avere la possibilita' di domandare ed  ottenere  una  pubblica
udienza») e ben  si  inserisce  nel  sistema  codicistico,  che  gia'
prevede lo svolgimento del giudizio abbreviato  in  pubblica  udienza
«quando ne fanno richiesta tutti gli imputati» (art.  441,  comma  3,
c.p.p.) 
    Cio'  premesso,  la   questione   e'   rilevante   nel   presente
procedimento sotto due profili. 
    Il primo e' quello gia' evidenziato, secondo il quale, la  scelta
del rito davanti a questa Suprema  Corte  non  puo'  prescindere  dal
principio generale secondo il quale «la corte procede  in  camera  di
consiglio quando deve decidere su ogni ricorso  contro  provvedimenti
non emessi nel dibattimento» (art. 611, comma primo, c.p.p.)  e  tale
principio dovrebbe essere applicato, nel prendere in esame  l'istanza
del ricorrente di trattazione del ricorso in  pubblica  udienza,  non
semplicemente tenendo conto del rito adottato nella  fattispecie  dai
giudici di merito, bensi' alla luce di un'eventuale dichiarazione  di
incostituzionalita' delle predette norme nella parte in cui impongono
lo svolgimento in  Camera  di  consiglio  del  procedimento  relativo
all'applicazione  di  misure  di  prevenzione.  Inoltre,  seppure  si
collegasse  la  scelta  del  rito  ad  una   opzione   del   soggetto
interessato, essa non necessariamente deve essere  spesa  in  limine,
potendosi esprimere anche in successivi gradi del giudizio. 
    Il secondo profilo e' quello concernente la  deduzione  difensiva
di conseguenze  invalidanti  delle  decisioni  di  merito  «scaturite
all'esito di procedure da  ritenere  illegali  ora  per  allora»:  e'
evidente che la decisione sulla stessa deduzione difensiva  non  puo'
che essere condizionata dall'esito del giudizio  sulla  questione  di
legittimita' costituzionale come sopra proposta, tenendo presente che
un'eventuale dichiarazione di incostituzionalita'  non  potrebbe  non
spiegare i suoi effetti su un  processo  ancora  in  corso  che,  per
essere sostanzialmente giusto, deve avere la capacita' di  emendarsi,
per adeguarsi  a  regole  costituzionalmente  corrette.  La  costante
giurisprudenza di questa Suprema Corte in merito agli  effetti  della
declaratoria di incostituzionalita' di una norma ha chiarito  che  la
dichiarazione   di   illegittimita'   costituzionale,   avendo    per
presupposto l'esistenza di un vizio che inficia sin  dall'origine  la
norma, ha efficacia invalidante e non abrogativa, produce conseguenze
assimilabili a quelle dell'annullamento, nel  senso  che  incide,  in
coerenza con  gli  effetti  propri  di  tale  istituto,  anche  sulle
situazioni pregresse verificatesi nel corso del giudizio nel quale e'
consentito  sollevare,  in   via   incidentale,   la   questione   di
costituzionalita', e spiega, pertanto, effetti non  soltanto  per  il
futuro ma anche retroattivamente in relazione a fatti  o  a  rapporti
instauratisi  nel  periodo  in  cui  la  norma  incostituzionale  era
vigente, con esclusione, ovviamente, di quelle situazioni  giuridiche
ormai esaurite, non suscettibili cioe' di essere rimosse o modificate
o di quelle situazioni consolidate per effetto  di  norme  penali  di
favore, alle quali deve darsi comunque prevalenza ex art.  25,  comma
2, Cost. Neppure e' consentito distinguere, con riguardo agli effetti
retroattivi della declaratoria d'incostituzionalita',  fra  norme  di
diritto sostanziale e norme processuali  e,  relativamente  a  queste
ultime,  fra  applicazione  diretta  (con  riferimento   cioe'   alla
formazione dell'atto secondo le norme poi dichiarate  illegittime)  e
applicazione indiretta  (consistente  nel  mero  controllo  dell'atto
precedentemente compiuto), posto che, anche in questo  secondo  caso,
il  giudice  e'  tenuto  a  rilevare  l'inidoneita'  della  normativa
dichiarata incostituzionale  a  qualificare  l'attivita'  processuale
svolta.     L'immediata     operativita'     della      dichiarazione
d'incostituzionalita' nei giudizi non ancora definiti non puo' essere
posta in discussione neppure nell'ipotesi di sentenza additiva  della
Corte  costituzionale,  e  cioe'  quando  la  suddetta  dichiarazione
importi la sostituzione positiva di una regola del decidere con altra
regola,  anziche'  la  pura  e  semplice  caducazione  di  un   testo
normativo: con la conseguenza che,  in  tal  caso,  il  giudice  deve
assumere come canone  di  valutazione  esclusivamente  la  disciplina
risultante dall'innovazione apportata  dalla  decisione  della  Corte
costituzionale (Sez. Un. , 27 febbraio 2002,  n.  17179,  Conti,  rv.
221401; Sez. Un. , 28 gennaio 1998, n. 3, Budini,  rv.  210258;  Sez.
Un. 7 luglio 1984, n. 7232, Cunsolo, rv. 1665563). 
    Tali principi dovranno essere applicati, in caso di dichiarazione
di incostituzionalita' con riferimento alla  questione  sollevata  in
questa  sede,  tenendo  conto,  in  relazione  al   contenuto   della
dichiarazione stessa, di quanto previsto dall'art. 471 c.p.p. e delle
interpretazioni giurisprudenziali in  materia  (Sez.  Un.  21  aprile
1995, n. 7227, Zoccoli, rv. 201378). 
    Per quanto concerne la non manifesta infondatezza della questione
proposta, deve, in primo luogo, rilevarsi, che la norma  interna  non
e'  suscettibile  di  un'interpretazione  "adeguatrice"  alla   norma
convenzionale in considerazione dell'evidenza  testuale  della  norma
stessa alla quale non si puo'  attribuire  altro  senso  che  "quello
fatto  palese  dal  significato  proprio  delle  parole"   (art.   12
disposizioni sulla legge in generale), come sopra  gia'  argomentato,
dovendosi solo aggiungere che non e' possibile con  riferimento  alla
disposto dell'art. 441, comma  3,  c.p.p.,  il  ricorso  all'istituto
dell'analogia,  poiche'  esso  e'  consentito   solo   per   regolare
un'ipotesi, non prevista dalla legge, con la disciplina  dettata  per
un'altra ipotesi, ritenendo  con  un  processo  logico-giuridico  che
quest'ultima norma  sia  tale,  per  l'ampiezza  del  suo  fondamento
normativo, da ricomprendere razionalmente tanto il caso regolato  che
quello formalmente non regolato; anzi, proprio l'espressa  previsione
per il giudizio abbreviato conferma che, nel sistema  del  codice  di
rito, si tratta di un'ipotesi eccezionale per la quale e'  necessaria
una apposita norma. 
    Non essendo  possibile  un'interpretazione  adeguatrice,  occorre
prendere atto dell'evidente contrasto della normativa interna con  le
norme convenzionali cosi' come interpretate dalla Corte  Europea  dei
Diritti dell'Uomo. 
    In verita', secondo  un  indirizzo  interpretativo  sostenuto  in
dottrina, cio' che dovrebbe essere garantito sempre e comunque e'  il
contraddittorio,  quale  strumento  di  partecipazione  non  soltanto
fisica al processo,  ma  funzionale  all'acquisizione  del  materiale
probatorio, e tale principio troverebbe piena  tutela  nel  novellato
art. 111  della  Costituzione,  che,  invece,  non  annovera  tra  le
garanzie  costituzionali  la  pubblicita'   dell'udienza;   pertanto,
occorrerebbe effettuare un bilanciamento ragionevole del valore della
pubblicita' del processo rispetto  ad  altri  valori  costituzionali,
quale quello della  ragionevole  durata  del  processo,  che  sarebbe
garantita dalla snellezza e flessibilita' del rito camerale. 
    In effetti, la Corte costituzionale con  le  citate  sentenze  ha
chiarito che, in occasione di  ogni  questione  nascente  da  pretesi
contrasti  tra  norme  interposte  della  CEDU,  cosi'  come   vivono
nell'interpretazione che delle  stesse  viene  data  dalla  Corte  di
Strasburgo,  e  norme   legislative   interne,   occorre   verificare
congiuntamente  la  conformita'  a   Costituzione   di   entrambe   e
precisamente  la  compatibilita'  della  norma  interposta   con   la
Costituzione e la legittimita' della norma  censurata  rispetto  alla
stessa norma interposta; e che nell'ipotesi di una  norma  interposta
che risulti in contrasto con una norma costituzionale, la Corte ha il
dovere di dichiarare  l'inidoneita'  della  stessa  ad  integrare  il
parametro; inoltre, la stessa Corte ha escluso che le pronunce  della
Corte di Strasburgo siano incondizionatamente vincolanti ai fini  del
controllo di costituzionalita' delle leggi  nazionali,  poiche'  tale
controllo deve sempre ispirarsi al ragionevole bilanciamento  tra  il
vincolo  derivante  dagli  obblighi  internazionali,  quale   imposto
dall'art. 117, primo  comma,  Cost.,  e  la  tutela  degli  interessi
costituzionalmente  protetti  contenuta  in  altri   articoli   della
Costituzione. 
    Deve, pero', osservarsi, da un lato che non si  vede  come  possa
ravvisarsi un contrasto  -  peraltro  neppure  sostenuto  dal  citato
indirizzo interpretativo - tra le norme costituzionali e quella della
CEDU in tema di pubblicita' del processo e dall'altro  lato,  come  i
principi del contraddittorio e quello della pubblicita' siano  valori
concorrenti e l'uno non esclude l'altro, poiche' anche la pubblicita'
contribuisce a realizzare, attraverso  la  trasparenza  che  assicura
all'amministrazione della giustizia, lo scopo  precipuo  dell'art.  6
della Convenzione Europea dei  Diritti  dell'Uomo,  vale  a  dire  le
proces equitable.  D'altro  canto,  la  pretesa  snellezza  del  rito
camerale non puo' essere un'affermazione  generale  ed  astratta,  ma
deve essere verificata nel concreto  della  specifica  disciplina  di
legge, che, proprio se garantisce  la  pienezza  del  contraddittorio
anche nel rito camerale, potrebbe non incidere apprezzabilmente sulla
ragionevole durata del processo, ma piuttosto  solo  pregiudicare  il
principio di "non segretezza" dell'udienza. 
    E'  bene  ricordare  che  il  procedimento  di  prevenzione,  pur
mantenendo le proprie peculiari connotazioni, e' ormai  pervenuto  ad
una compiuta giurisdizionalizzazione e ad una piena assimilazione  al
processo ordinario di cognizione, essendo caratterizzato, al pari  di
quest'ultimo,  dai  principi   coessenziali   al   giusto   processo,
identificati dal novellato  art.  111  Cost.  nella  presenza  di  un
giudice terzo e imparziale  e  nel  contraddittorio  delle  parti  in
posizione di parita'. Va sottolineato, del resto, che la spinta verso
tale equiparazione corrisponde ad una necessita' logica  e  giuridica
dettata dalla natura dei beni giuridici sui quali incidono le  misure
praeter delictum, il cui contenuto si  traduce,  nella  sostanza,  in
rilevanti limitazioni di diritti costituzionalmente  protetti,  primo
tra tutti quello della liberta'  personale  proclamata  «inviolabile»
dal primo comma  dell'art.  13  Cost.:  di  talche'  la  potesta'  di
prevenzione non puo' prescindere dall'osservanza delle  garanzie  che
sono proprie del  processo  (Sez.  I,  24  ottobre  2003,  n.  45723,
Guttadauro, rv. 226035). 
    Si deve, inoltre, rilevare che la Corte  costituzionale  ha  piu'
volte riconosciuto che la regola della pubblicita'  dei  procedimenti
giudiziari, pur non essendo stata posta dagli artt.  24,  101  e  111
della Costituzione, va ritenuta coessenziale ai principi ai quali, in
un ordinamento democratico fondato sulla  sovranita'  popolare,  deve
conformarsi  l'amministrazione  della   giustizia   che   in   quella
sovranita'  trova  fondamento   (art.   101,   primo   comma,   della
Costituzione). Tale regola puo' subire eccezioni,  in  riferimento  a
determinati procedimenti, quando esse abbiano obbiettiva e  razionale
giustificazione, e soprattutto quando siano operate  in  funzione  di
valori dalla stessa Costituzione garantiti (Corte  cost.  n.  25  del
1965, n. 12 del 1971, n. 212 del 1986, n. 50  del  1989;  n.  69  del
1991; n. 373 del 1992); giustificazione che, ad esempio, non e' stata
ravvisata con riferimento al procedimento  davanti  alle  commissioni
tributarie (sent. n. 50 del 1989). In conclusione, alla stregua delle
argomentazioni   svolte,   deve   dichiararsi   rilevante    e    non
manifestamente infondata, in riferimento all'art. 117,  comma  primo,
della  Costituzione,  la  questione  di  legittimita'  costituzionale
dell'articolo 4 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 e dell'articolo
2-ter della legge 31 maggio 1965, n. 575,  nella  parte  in  cui  non
consentono che, a richiesta di parte, il procedimento in  materia  di
misure di prevenzione si svolga in pubblica udienza. 
    A norma dell'art. 23 della legge  11  marzo  1953,  n.  87,  deve
dichiararsi la sospensione del giudizio e deve  disporsi  l'immediata
trasmissione degli atti alla  Corte  costituzionale.  La  cancelleria
provvedera' alla notifica di  copia  della  presente  ordinanza  alle
parti e al Presidente del Consiglio dei ministri e alla comunicazione
della stessa ai Presidenti della Camera dei  deputati  e  del  Senato
della Repubblica.